Con il piacere di vivere la vita è una bella avventura.
Senza il piacere è una lotta per la sopravvivenza.
Alexander Lowen
Abbiamo scritto che lo sforzo esiste finché cerchi di fuggire la solitudine, il vuoto interiore, il senso di fallimento e inadeguatezza. Il senso di abbandono e di incompiutezza. Più cerchi di sfuggire più realizzi la profezia dello “sforzo di vivere”, dell'inutile tentativo di “esistere”, di esserci. La vita si riempie di sforzi, sforzi, sforzi… che sono appunto solo sforzi. E' lo scudo contro il vuoto della vita, da tenere sempre alzato, se il braccio si stanca la lama colpisce e il vuoto riappare.
Ma poniamo che ti fermi ad osservare la solitudine, abbassando lo scudo e lasciandoti colpire; che accetti “ciò che è”, senza evitarlo; che superi la paura entrando nella realtà delle cose, uscendo al tempo stesso dalla “rappresentazione” che la mente ne compie. Cosa succede allora?
Succede che la lotta è terminata. Stai realizzando lo stato dell’essere in pace.
Quando hai comprensione di “ciò che è” (vuoto, inadeguatezza interiore ed esteriore), quando vivi con questa inadeguatezza e la comprendi, ecco realizzarsi la realtà creativa, l'intelligenza creativa che sola porta felicità.
E scopri che “l'azione”, come la conosciamo, non è in realtà azione: è reazione. Crediamo di agire, ma stiamo solo reagendo alla nostra paura, al senso di insicurezza, all’inadeguatezza, alla solitudine, al senso di mancanza e di vuoto, di incompletezza. Non siamo noi in realtà a condurre i giochi, ne siamo condotti. Crediamo di essere i protagonisti della nostra vita e delle nostre scelte, ma stiamo solo reagendo con la negazione incessante, forsennata, di “ ciò che è”, con la lotta per trasformarlo in “ciò che non è”. E' il tentativo di evitare, smentire la realtà.
Ma quando entri nella consapevolezza del vuoto senza alternative che accompagna la tua vita, qualunque vita, senza condannare o giustificare, allora, nella comprensione di ciò che è, ecco realizzarsi l'azione, e tale azione è l'essere creativo.
E l’essere creativo è il magnifico costruttore, in grado di edificare davvero una vita di gioia e successi, non tramite lo sforzo, ma con l’applicazione di sé stessi alla realtà che ci circonda. Ovvero, non ha bisogno di cercare i materiali fuori di sé per essere felice, la persona creativa fa fiorire al di fuori di sé i materiali che già vivono dentro di sé e li trasforma in realtà.
Non viviamo mai ma speriamo di vivere e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali.
Blaise Pascal
Come raggiungere tale stato di comprensione, consapevolezza, vita senza sforzo?
Al prossimo post
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"Non siamo noi in realtà a condurre i giochi"
RispondiEliminaTrovo ci sia del vero in quello che affermi, anche se non sono del tutto convinto della parte in cui dici "Crediamo di essere i protagonisti della nostra vita e delle nostre scelte".... ma ho la mia teoria... è bello vedere che non sono il solo ha pensare a certi perché.
Al prossimo post
Un saluto
Alberto
Tristemente posso dirti che le piccole cavie da laboratorio, immesse in un ambiente controllato, scelgono autonomamente come reagire a date situazioni. Le loro possibilità di scelta sono limitate ma esistono.
RispondiEliminaOra, mi chiedo: è un giorno feriale, mi sveglio, quante possibilità di scelta ho sul cosa fare in mattinata? E' sera, ho finito di lavorare, di nuovo, quante possibilità di scelta ho sul cosa fare delle mie ore residue? E quante volte posso scegliere liberamente senza incappare in qualche vincolo? Vivo in un ambiente libero o "controllato", come le caviette?
Ma non è solo un fatto sociale, ma umano, esistenziale, fisico, con i limiti ineludibili di un corpo fisico, sottoposto ai limiti del bisogno, del tempo, della finitezza delle proprie capacità, ed opportunità.
Mi rendo conto sempre più di essere in qualche modo un prigioniero, non di qualcuno o qualcosa, ma della struttura stessa della nostra esistenza che è comunque vincolata e vincolante. E anche se potessi godere di piena libertà su me stesso, non essendo l'uomo un'isola nè autosufficiente, non potrei comunque godere di un mondo esterno che assicura i miei desideri, i miei bisogni.
Prigioniero anche se libero quindi, per il semplice fatto che i desideri verrebbero comunque frustrati in quanto il creato non risponde ai miei desideri e io ho bisogno di esso. Ammesso che io sia davvero "libero" e questo è tutto da vedere, anzi!
Infatti sono convinto che l'unica cura (spirituale) a questo dilemma sia quella di riconoscersi prigionieri e accettando questa prigionia, imparare a viverla da uomini, ovvero come creature che accettano la propria finitezza vivendo un'umiltà che all'uomo non consapevole è sconosciuta, ma la cui mancanza è dolorosa e alla lunga disperatamente, ottusamente, alienante.